'Frankenstein' di Mary Shelley: riflessione emotiva su un romanzo più umano dei suoi mostri
Un romanzo in una notte buia e tempestosa... come certe nostre giornate
Diciamocelo: Frankenstein è una di quelle letture che ci accompagna da sempre, magari prima come mito, poi come film improbabile visto in tv, e infine come libro vero e proprio, quando decidiamo che è ora di conoscere la storia dalla voce della sua creatrice. E che creatrice! Mary Shelley, ventenne e con il mondo che ancora non sapeva che una ragazza così giovane stesse per rivoluzionare la letteratura gotica.
Leggere Frankenstein oggi significa entrare in una casa di legno scricchiolante, con una tazza di cioccolata calda in mano e un temporale che bussa alle finestre. E sì, anche il mio cane che si rifiuterebbe di uscire. È un romanzo che ti accoglie, ma ti inquieta, che ti scalda e ti gela allo stesso tempo. È accogliente, ma col cardigan nero.
Victor Frankenstein o l'arte di farsi del male da soli
Victor è il classico personaggio per cui vorresti creare una chat di gruppo con tutte le tue amiche e scrivere: "Ragazze, questo qui ha bisogno di uno bravo!".
Perché Victor scappa. Sempre. Scappa dalle responsabilità, dalle emozioni, da ciò che ha creato. E noi tutti, almeno una volta nella vita, siamo stati un po' Victor: abbiamo acceso un fuoco e poi ci siamo nascosti dietro la porta, sperando che nessuno ci vedesse col fiammifero in mano.
La sua tragedia più grande non è aver creato un essere vivente, ma non averlo guardato negli occhi. E questo, lettrici mie, è un peccato antico quanto l'umanità: la paura di affrontare ciò che nasce da noi, soprattutto quando non è come avevamo immaginato.
Il Mostro: così umano da farci male
La creatura di Frankenstein non ha neanche un nome - e già qui Mary Shelley aveva capito tutto: niente ferisce quanto l'anonimato dell'anima. Leggendo le sue parole, le sue speranze, la sua solitudine, capiamo che il vero mostro non è lui. È la società. Siamo noi, quando puntiamo il dito e poi ci lamentiamo perché qualcuno resta fuori dalla porta.
Il Mostro è fragile, sensibile, desideroso di un gesto di gentilezza. E in fondo, se togliamo un paio di cicatrici e grossi bulloni, non siamo così diversi. Non cerchiamo tutti uno sguardo che ci dica: "Ti vedo"? Non abbiamo tutti una parte goffa, impacciata, che vorrebbe solo essere accolta?
La solitudine come creatura silenziosa
Mary Shelley ci ricorda che la solitudine può essere un mostro paziente: non urla, non graffia, ma divora. E nel romanzo lo fa due volte: divora la creatura, esiliata da chiunque incontri, e divora Victor, vittima della propria incapacità di amare ciò che ha creato.
È un tema che oggi sentiamo addosso come una coperta un po' ruvida: in un mondo che comunica sempre, riusciamo a sentirci soli con un'efficienza spaventosa. Shelley ce lo dice senza urlare: quando nessuno ci riconosce, cadiamo a pezzi. Quando qualcuno ci guarda davvero, torniamo interi.
Creatori e creature: chi è responsabile di chi?
Forse il messaggio più forte del romanzo è proprio questo: ogni atto che compiamo crea qualcosa: E ogni cosa che creiamo ci chiede responsabilità. Victor rifiuta la sua, e tutto crolla. È un monito, ma anche un invito a essere più presenti nella nostra vita: non si tratta di costruire mostri o geni, ma di assumerci il peso delle nostre scelte.
Shelley sembra dirci: "Non puoi fuggire da ciò che hai reso possibile". La verità è che, nel bene e nel male, siamo tutti un po' architetti della nostra felicità e dei nostri disastri.
Perché Frankenstein continua a parlarci
Forse continua a parlarci perché Mary Shelley aveva intuito una cosa semplice e gigantesca: l'umanità non è fatta di eroi impeccabili né di creature malvagie, ma di persone che vorrebbero essere viste, comprese, amate. Frankenstein è una storia sull'abbandono, sulla paura, sulla responsabilità, ma anche su ciò che potrebbe accadere se avessimo il coraggio di guardare davvero chi ci sta di fronte.
E mentre chiudevo il libro, ho pensato che, se mai incontrassi il Mostro, gli farei spazio sul divano. Sono certa che Roby lo accoglierebbe e che Vani gli porterebbe un peluche dei suoi.
Perché sì: alla fine, il mostro è solo qualcuno che ha smesso di sperare che qualcuno gli dica "resta".


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