UN LITRO DI LACRIME || Kitō Aya || Rizzoli || 1 ottobre 2019 || 192 pagine
Nel vasto mondo asiatico, il diario di Kito Aya ha conosciuto un successo inarrestabile: pubblicato sul finire degli anni Ottanta in Giappone, ha venduto oltre un milione di copie. Una platea affollata per il racconto in prima persona di una ragazzina quindicenne che ha ispirato e incantato un intero continente. Aya racconta dieci anni della propria vita, racconta l'adolescenza e l'inizio dell'età adulta, una vita come tante, ma senza prospettiva, un'esistenza minata dalla malattia, ecco la differenza. Ed è racchiusa qui la potenza di queste pagine: nella ribellione, nell'ironia, nella fragilità che si trasforma in forza, che fanno di Aya un simbolo, una figura di culto. Perché, al di là della sua particolare condizione, è riuscita a gridare con voce limpida cosa vuol dire diventare grandi, e a contare quante lacrime servono per affrontare le sconfitte.
Non amo la letteratura giapponese, non l'ho mai letta, non mi affascina e penso che, dopo questo libro, non ci sarà un secondo approccio!
Il motivo per cui ho deciso di leggere Un litro di lacrime è che le Sciallette lo hanno scelto come lettura di gruppo per la Escape Ciambelle, la challenge che ho organizzato assieme a Lallina e alla Bacci.
Ho dato un'occhiata alla trama, che mi ha incuriosita e, complice anche l'avere a disposizione l'audiolibro, ho pensato che questo libro potesse essere un buon esordio per me nel mondo della narrativa orientale.
Ecco, l'audiolibro è l'unico motivo per il quale non ho mollato questo romanzo che, nonostante la sua brevità (appena 190 pagine), riesce essere mortalmente noioso.
Mi sono chiesta se fosse il caso di scrivere una recensione, in quanto Un litro di lacrime non è un romanzo, ma il diario, pubblicato postumo, di Kitō Aya, una ragazzina che, all'età di 14 anni, scoprirà di essere affetta da atassia spinocerebellare, una malattia neurodegenerativa che la porterà, col tempo, alla paralisi totale e, infine, alla morte.
Si può "giudicare" un diario? Si può analizzare la vita di una persona, scritta di suo pugno, nel pieno di una diagnosi e di una malattia che lo porterà alla morte? Sì, nel momento in cui questo viene "dato in pasto" al lettore, diventa "giudicabile".
Il problema più grande che ho nel parlarvi della storia di questa ragazza, però, è che io di emozioni non ne ho provate affatto.
Ho affrontato questa storia esattamente come me l'ha narrata la sua protagonista: freddamente, con distacco.
Non è che Aya non si disperi per ciò che le sta accadendo, è che lo fa "da giapponese" e allo stesso modo ne scrive nel suo diario, che si trasforma in una sorta di cronaca asettica dell'evoluzione della sua malattia, intervallata da episodi di vita quotidiana che ci mostrano quanto la scuola giapponese non "tolleri" la presenza di persone non in grado di svolgere le normali attività quotidiane, spingendo sempre più ferocemente questa ragazza verso un istituto per disabili.
In egual misura, famiglia e amici spariscono sempre più sullo sfondo di questa storia; solo la madre rimane una presenza costante nella vita di Aya, tanto da essere protagonista del diario sia nella scelta di farlo pubblicare dopo la morte della figlia che nell'aggiungere, di suo pugno, un capitolo finale.
Speravo che almeno la sua "voce", quella di una madre che ha visto la figlia morire giovanissima, riuscisse a scuotermi, ma anche questo caso l'elettrocardiogramma è rimasto piatto.
Sicuramente, il modo di essere dei giapponesi, il loro riserbo, quel pudore nei confronti delle emozioni che li contraddistingue da sempre, ha inciso non poco sulla stesura di questo diario.
Ma proprio questo loro modo di (non) esternare i sentimenti, rende asettica una lettura che, invece, dovrebbe lacerare l'anima di chi la affronta.
C'è stato un momento, a fine lettura, nel quale mi sono chiesta se il problema non fossi io e così sono andata a spulciare le recensioni su GoodReads. Ed è qui che la mia recensione potrebbe avere un sottotitolo: "La strana incapacità degli italiani di essere obiettivi di fronte alla malattia"!
È stato stupefacente scoprire come in Italia nessuno abbia dato un voto inferiore a 4 stelle; quando ci si sposta alle recensioni straniere, invece, ecco che fioccano le stroncature!
C'è poco da dire: noi italiani non siamo in grado di scindere l'aver davanti la storia di una ragazza malata da quello che, in realtà, questa storia trasmette e cioè nulla!
Un litro di lacrime è una storia che potrebbe sicuramente essere d'aiuto a chi sta affrontando una malattia, purché questa persona appartenga alla stessa cultura della narratrice.
In caso contrario, preparatevi ad affrontare quasi 200 pagine di freddo glaciale!
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